M. Pasqualone

Incontrarsi per dirsi noi
Pensieri sull’arte connettiva-relazionale di Anna Seccia

di Massimo Pasqualone

Da più di vent’anni Anna Seccia coltiva un sogno, il sogno che Hans Georg Gadamer così sintetizza, a proposito del compito che ci propone l’arte: “imparare ad ascoltare ciò che vuole parlare, e noi dovremmo confessare che l’imparare ad ascoltare vuol dire anzitutto elevarsi al di sopra della livellante sordità e miopia che una civiltà sempre più ricca di stimoli è intenta a diffondere ovunque”.

L’importanza del messaggio, come sottolineano in molti, è più importante del metodo, ma nell’arte relazionale e connettiva di Anna Seccia entrambi costituiscono l’approccio ermeneutico alla dimensione dell’alterità, fin dall’happening-performance de “La stanza del colore”, un’operazione artistica sperimentata negli ambiti più diversi, fin dal 1997, che promuove la creatività allargata al grande pubblico in modo da ampliare la funzione dell’arte e la sua dimensione culturale e, soprattutto, l’azione sociale come nuova comunicazione attraverso tutti i sensi con la realizzazione di opere partecipative pittoriche di grandi dimensioni.

Certo, come afferma Angela Vettese, “coinvolgere il pubblico è stata una maniera di superare la barriera tra opera e osservatore, sovvertendo l’idea dele criticando implicitamente i suoi aspetti sacrali”, e di esempi è piena la recente storia dell’arte, a partire dal 9 aprile 1919, quando sotto la direzione di Tristan Tzara, Hand Richter e Jean Arp dipinsero scenografie mentre altri esplicitavano alte operazioni culturali.

Mi vengono poi rapidamente in mente il gruppo Zero di Dusseldorf ed il gruppo Nuova tendenza, il Gruppo T, il Gav, ma non è questa la sede opportuna per approfondire la dimensione teorica dell’assunto.

È certo, però, come scrive Manuel Castells, che “in un mondo di specchi rotti, fatto di testi non-comunicabili, l’arte potrebbe essere, senza una precisa agenda, di per sé, un protocollo di comunicazione e uno strumento di ricostruzione sociale”.

Anna Seccia crede fermamente in questo, e nelle sue proposte i partecipanti-artisti-estroiettatori seguono un percorso costituito da diverse fasi attraverso tecniche di global art che portano a vedere e a percepire la realtà attraverso l’arte del sé individuale e collettivo, con il segno e il colore, per creare immagini che promuovono l’integrazione tra la dimensione sensoriale–corporea dell’esperienza e quella mentale.

È ancora Castells che ci aiuta: “L’arte, sempre più espressione ibrida dei materiali virtuali e fisici, può essere un ponte culturale fondamentale tra la rete e l’io”.
Dove per rete intenderei ritrovare l’azione, esplorare le variazioni, misurare i limiti, moltiplicare i punti di vista, cambiare le dimensioni, trasformare l’organizzazione, ricercare le analogie, spezzare le abitudini, creare, per usare una nota espressione, l’opera aperta.
Opportunamente ha scritto recentemente Maurizio Calvesi: “Può ormai assomigliare, l’arte, a quel gioco di centri concentrici che produce il sasso nell’acqua. Intorno al punto di impatto, si formano circoli dal lineamento sempre più tenue, finchè si perde come acqua nell’acqua. Dal centro di questa liquida planimetria ci si può allontanare verso altre zone, rimanendo nel territorio dell’arte, purché in quella zona i circoli lascino ancora un segno. Il che non sempre avviene.”
Immaginate le periferie di questa planimetria, con certe interpretazioni nichiliste dell’esistenza, dove questa “è solo un’opportunità per sensazioni ed esperienze in cui l’effimero ha il primato”.

L’arte connettiva, dunque, attiva processi di conoscenza e di dialogo per significare quanto l’arte sia portatrice di valori “altri” per la ricerca dell’armonia e della verità che sconfina nella bellezza profonda della condivisione, è legata alla pratica relazionale a partire da una concezione dell’arte come attivatore di processi in costante dialogo tra materia e spirito che si traduce con la metafora del colore in un linguaggio di incontro e di condivisione di esperienze sullo spazio pittorico della tela, generando così un interscambio per far sì che l’opera, piattaforma aperta, non veda più un solo performer, ma una collettività di performer che tramite una memoria gestuale fissano sulla tela in un pattern visivo di interazione coloristica che costruisce senza rappresentare.
E la bellezza?
Alla fine del Settecento Johann Winckelmann affermava che la bellezza è un principio perenne e non mutevole dell’arte.

Oggi questo principio è difficile da sostenere tanto che il grande Jannis Kounellis ritiene, e non si può non essere d’accordo, che “la bellezza è una cosa che capita ed indica brevi momenti”, con la profonda eco dureriana del “che cosa sia la bellezza non so”. Di una cosa però siamo certi: la bellezza, seppure estranea ad ogni definizione, è, per dirla con Giulio Paolini, parente stretta dell’infinito, della vertigine.

Come dialettica tra forma e contenuto, l’opera d’arte ospita la bellezza, perché è il risultato di una mediazione tra intento creativo e determinazione ideologica: la bellezza è dunque l’indicibile della creazione artistica.

La bellezza, che da sempre abita l’opera d’arte, diviene dunque bene, secondo il percorso ormai classico dei nomi del bello proposto da Bruno Forte.
Nel processo di creazione viene a cancellarsi il confine tra artista e partecipanti e l’opera nasce dalla sinergia di diverse personalità attraverso segni liberi e spontanei che producono, sotto la direzione dell’artista, un lavoro corale dove ogni singola voce ha identità e riconoscimento fondendosi con tutte le altre in modo armonico in un risultato espressivo-coloristico che è di tutti e ciascuno allo stesso modo, in linea con quanto afferma Pareyson, sostenendo che l’opera d’arte è la cosa più comprensibile di tutte, “non ha bisogni di intermediari per rivelarsi, giacchè il suo stesso volto fisico è un significato vivente”.

Inoltre, così, l’arte diventa “un rifugio al sistema e alle strutture del mondo, una forma di preghiera in questo massacro tecnologico privo di sentimento e di passione”- come sottolinea in modo decisamente plastico Radu Dragomirescu.
Un incontrarsi per dirsi noi, dove l’io si fa tu attraverso l’opera d’arte collettiva, ed il risultato visivo è una pittura astratta informale scandita tra il fluire del segno e la dinamicità della composizione che esprime la visione di uno spazio in movimento con una energia narrante capace di dare emozioni e sensazioni attraverso un percorso che dà luogo ad un personale linguaggio visivo del gruppo che lo ha prodotto.

Forse dovremmo dire co-prodotto, nell’epoca 2.0 dove è tutto condiviso, comunicato, interagito, perché si tratta dell’arte come processo collettivo autogestito, come scambio di informazione interpersonale e di produzione di comunità.

Dell’arte che permette al tradizionale pubblico di non essere più semplice spettatore, ma di poter partecipare alla creazione stessa di un processo, processo innescato dall’artista, ma capace di trasformarsi – lo ribadiamo a gran voce- in un’opera aperta.
Il cammino è lungo, ma i passi fatti sono già tanti, come testimoniano le risonanze critiche legate alle attività sperimentali di Anna Seccia.

Presentando La stanza del colore presso l’Università G. D’annunzio di Pescara nell’ormai lontano 1998, Toti Carpentieri ebbe a dire che “La Stanza del Colore è, infatti, un luogo ma anche una situazione ed un evento che consente alle persone tutte, in tutti i luoghi sotto tutte le latitudini di “rivelarsi” per il tramite del gesto pittorico e dei significati del colore, passando dall’autoconoscenza alla formulazione di possibilità relazionali imprevedibili e impreviste, per il tramite della presenza catalizzatrice e direzionale che si identifica con l’artista e con il suo ruolo; e Maurizio Vitiello nel 2007, alla presentazione del progetto OLOS presso il Museo Colonna di Pescara, sosteneva che “La realizzazione delle pitture di diversi pannelli è nata dalla sinergia di diverse personalità attraverso segni liberi e spontanei sotto la direzione dell’artista e ciò ha prodotto un lavoro corale dove ogni singola voce ha avuto identità e riconoscimento fondendosi con tutte le altre in modo armonico in un risultato espressivo coloristico che è di tutti allo stesso modo”.

E poi ancora Giovanni Amodio in Meridiano Sud 2007: “…Nella Stanza del Colore, tutto accade con libero ingresso, si amalgama e si nutre di competenza infantili o adulte nella nobiltà del colore che si accentua e si contamina per assurgere a valore autonomo non casuale, ma certamente sublimato dall’idea di base vincente…”.

Anche la sociologia è entrata in campo per definire i contorni di questo fenomeno, che sicuramente è sociale, perché Anna Seccia è innovatrice in questo campo in quanto organizza sessioni d’arte come opere aperte, invita il pubblico in progetti pittorici che, lavorando sulle relazioni, si trasformano in una rete tra i partecipanti, in modo tale che da ogni incontro nascano nuove relazioni, nuovi significati, ipotesi differenti di osservazione ed interpretazione del mondo.

La comunicazione artistica, interagendo con il pubblico sullo stesso piano, sviluppa piattaforme collettive che mette in rete le potenzialità partecipative dei cittadini attraverso una componente ludica e comunicazione emotiva a partire da una concezione dell’arte come attivatore di processi in costante dialogo tra materia e spirito.

Lo sottolinea Ezio Sciarra: “La stanza del colore costituisce sicuramente una forma così complessa e unitaria di un’identità sociale che, nell’informalità simbolica della fusione dei gesti, si configura come un’operazione artistica essa stessa singolare, frutto di una cornice interpretativa di molte individualità che convergono in un unico risultato di immagine guidata maieuticamente dall’artista”, lo ribadisce Francesco Trequadrini: “La stanza del colore è uno spazio di socializzazione e condivisione in cui si evocano memorie si scambiano esperienze tutto significando con i colori… che viene colto impiegato secondo i significati archetipici più autentici e sono espressione che precedono il segno e non servono per riempire forme e figure ma per farle emergere da un condensato di emozioni, sensazioni, istinti, pulsioni…” e Roberto Filippini: “La Stanza del colore costituisce una dimensione in cui questi processi possono avvenire. Ognuno può fare l’esperienza così rara nel mondo attuale di essere solo con se stessi nel mentre che condivide con altri, e dar forma a ciò che si muove in lui lasciando che si esprima secondo i propri tempi e modi. La mente esprime forme e colori e questi a loro volta, espressi, danno nuove forme e colori alla mente”.

Nello specifico, “La Stanza del colore è diventata con il passare degli anni il topos centrale dell’identità interiore di Anna Seccia. In altre parole, è diventato il vero son double…”, significa Giorgio Di Genova

Dunque non siamo all’incipit, fioccano i manifesti, le interpretazioni critiche, le esegesi, ci sono Maja Bajevic e Heimo Zobernig, c’è l’io dell’artista funzionale alla collettività e la collettività funzionale all’io dell’artista, il tutto impastato con una buona dose di 2.0.
Sentite Fabio Tedeschi: “La caratteristica di questa singolare operazione artistica è che si è partecipi della creazione grazie ad un processo innescato dall’artista capace di trasformarsi in un’opera aperta allargata verso la collettività dove i differenti sensi si incrociano e favoriscono la vera percezione della realtà per sentire l’energia del suono nella forza del gesto in un percorso creativo ascendente dove un colore chiama un altro colore e la danza e la tensione innescano processi virtuosi,fine a che l’arte fluisce spontanea nei partecipanti. E’un’arte di rapporto,di comunicazione in cui le soggettività si incontrano attraverso l’immagine che è la chiave per l’invisibile”. Di recente Maria Cristina Ricciardi, per l’installazione”Opera Aperta” presentata dall’artista al Padiglione Italia/Abruzzo della 54°Biennale Internazionale d’arte di Venezia,curato da Vittorio Sgarbi, ha manifestato la seguente riflessione: ” l’opera, non è più un fatto privato, ma una esperienza condivisa, cioè “aperta”, alla dimensione energetica della creatività, alla partecipazione collettiva, alla casualità di tantissimi gesti e segni, che solo alla fine saranno ricuciti dalla consapevolezza dell’artista-demiurgo, a cui spetta il compito conclusivo di trarne ciò che si chiarisce come qualità essenziale dell’ “anima comune”, l’essenza ultima di un grande lavoro partecipato, che in molti casi si avvale anche dei linguaggi della musica e della sensorialità.”

L’arte relazionale e connettiva di Anna Seccia, basandosi sulla interrelazionalità del segno e del colore, ricerca la creatività collettiva, facendo diventare il fruitore anch’egli coautore di un’azione di relazione,veicolo di comunicazione, portavoce di una dimensione artistica allargata.
Gli artisti in relazione, all’unisono, scandagliano, quindi in ogni recesso, la modernità, con gli strumenti che materializzano sogni, speranze, non di rado incubi, e rigetti, pensieri volutamente deboli, in ossequio ad una incapacità di capire gli altri e di capire noi stessi, con l’annuncio-denuncia di un malessere diffuso, attraverso l’uso di materiali desueti, di esperienze cromatiche dirompenti, di tecniche che destrutturano le realtà osservate, scompongono in mille rivoli il fiume del divenire che l’arte, ad ogni istante, prova a focalizzare.

L’azione artistica quindi vuole ricondurre l’arte ad una sfera condivisa, accessibile a tutti e far sì che essa torni ad essere materia viva capace di alimentare la crescita individuale e sociale per riappropriarsi dello spazio della comunicazione in modo contemporaneo.
Per quanto riguarda nello specifico, l”Opera Aperta”di Anna Seccia prevedeva una creatività allargata al territorio abruzzese da svolgersi in 4 step con la nascita di tre opere pittoriche sociali, per concludersi con la realizzazione di una Installazione Pittoscultorea per i 150 anni dell’Unità d’Italia, che vedeva la partecipazione di 800 giovani studenti, e che ha successivamente trovato collocazione pubblica a Pescara presso l’Aurum e al Vittoriale degli Italiani di Gardone Riviera.

Nel 2012 Anna Seccia è andata “oltre” l’Opera, perché per l’Ottava Giornata del Contemporaneo, promossa dall’Amaci, oltre che a coinvolgere con una performance nel Museo Michetti di Francavilla (Ch) i cittadini per la creazione di un’altra “sua opera sociale” coinvolge nel suo condividere l’ arte anche i fruitori ultimi dell’opera, legandoli attraverso la fragmentazione dell’opera stessa ad essa con il possesso, attraverso una rete invisibile di fili per poi auspicare nel tempo la ricostruzione primaria dell’opera stessa creando cosi una rete partecipata di collezionisti.

Anna Seccia ha ragione: “L’artista è plurale perché non perde la sua dimensione autoriale, infatti una volta concluso l’intervento con il pubblico attraverso una pittura connettiva torna ad essere interprete attraverso tagli e successivi passaggi fatti di nuovi sensi espressivi per cercare il carattere del lavoro collettivo prodotto attraverso l’unicità nella diversità.”

È evidente che si tratta di un superamento dell’arte intesa come cammino autoreferenziale perché nel contesto delle relazioni fra segno e colore recupera la sua funzione sociale in rapporto alla collettività e diviene fautore di processi artistici in uno spazio di scambio e di partecipazione attiva.

Una grammatica, dunque, dell’inclusione, dell’alterità che sfuma negli estuari sottili e oscuri della contemporaneità, dove è categorico girarsi attorno per vedere quello che accade, come intorno ad una colonna, la colonna della vita, la vita degli artisti coinvolti, senza però sapere da quale punto il percorso è iniziato e soprattutto verso quale punto è diretto il nostro cammino, messo in crisi quotidianamente dalle geografie imperscrutabili del sogno.

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