G. Di Genova

Anna dei colori

di Giorgio Di Genova

L’espressione artistica è sempre e comunque un double del proprio io. O meglio dell’identità interiore dell’artista, che appunto attraverso l’altro da sé, cioè lo specifico linguistico scelto, restituisce un autoritratto psicologico-simbolico. Alla stessa stregua dell’identità fisionomica, che, pur trasformandosi col trascorrere del tempo, dalla nascita alla maturità ed oltre rimane sempre la stessa, altrettanto avviene nella produzione di ogni artista, la quale nel tempo mantiene costanti i tratti connotativi di base. Ciò mi ha portato ad asserire che ciascun artista per tutta la vita, mutatis mutandis, fa sempre la stessa opera, e non solo quando il discorso è monocorde, ma anche quando svaria nelle tecniche, nelle morfologie e nelle tematiche.
È chiaro che è più facile verificare la verità della mia asserzione nei discorsi monocordi che negli altri, nei quali è più complesso individuare i basilari tratti connotativi.
Anna Seccia non sfugge alla regola.

Né più né meno di quanto accade agli individui nel primo periodo di vita, i quali presentano una fisionomia ancora in formazione, ma immancabilmente con talune caratteristiche già in nuce, nelle prime opere da lei realizzate negli anni Sessanta e nella prima metà degli anni Settanta taluni tratti connotativi andavano precisandosi, se si esclude l’opzione cromatica. Infatti, da quello che c’è rimasto di quei primi dipinti, è possibile cogliere una trasfigurazione dell’immagine, dapprima compendiarla (Pescara, 1960), poi pressoché liquefatta (e stavo per scrivere liquida), di cui esempi probanti sono alcuni oli e sabbia su tela degli anni finali del Sessanta, e mi riferisco a Composizione con gatto del 1968 ed a Fiore marino, Apparizione, Pesce rosso, Impressione paesaggistica, tutti lavori del 1969, che mostrano (forse per un “ritorno del rimosso” dei suoi studi di Architettura) momenti di ripensamento oggettivo con i coevi Fiori e Fiori su un piano, ambedue sulla scia delle trasparenze già esperite l’anno precedente in Veduta dallo studio, ma che già nel 1969 vengono abbandonate in Impressione paesistica, per preludere agli sfaldamenti visivi dell’olio su carta Paesaggio urbano del 1970 e della coeva medesima tecnica Natura morta con boccale, in cui tali soluzioni si spingevano fino allo sfrangiamento, per certi versi anticipazione della svolta cromatica del 1975, documentata dall’acrilico su carta Composizione (Fiori), nella quale appunto l’azzurro, colore che, emerso anche nel pastello Ritratto di bambino, denuncia un’intima aspirazione espressiva.

Ed era il primo tuffo nelle gamme dell’azzurro, per non dire l’inizio dell’anabasi di Anna Seccia verso un tonalismo, che, vivendo ella a Pescara, probabilmente ha a che fare sia con il cielo e con il mare, come suggerisce il ciclo Variazioni sul tema, composto da acrilici su carta del 1980, nei quali distese equoree sono allusivamente restituite attraverso orizzontali mobili striature cromatiche, di chiara declinazione neoinformale, ora inquadrate sulla superficie rettangolare ora in sorta di “schermi” incorniciati appunto d’azzurro, di quell’azzurro che preannunciava il connotato che diverrà poi fondamentale del suo discorso pittorico.

Gli anni Ottanta sono cruciali per Anna Seccia. Ella decide di dedicarsi interamente alla pittura, per cui nel 1982 lascia la cattedra di Discipline Pittoriche e Plastiche, da lei ricoperta al Liceo Artistico di Pescara, ed in una sorta di esplosiva liberazione dà fondo al suo lessico neoinformale, sempre ispirato sia dai suoi abbandoni (Il sogno, 1984) sia dalla natura (Tra i rami, Paesaggio, Verde acqua, 1985), e risolto con una pittura gestuale densamente articolata con venature e giustapposizioni cromatiche, che dal 1986, in ottemperanza alla poetica del frammento tipica dell’Informale, comincia a frantumarsi per lasciare spazi all’azzurro del cielo (Territori, Allegria, Frammenti, Forma verde, Dialogo, Albero).

Volendo leggere esistenzialmente i vuoti di Forma verde e di Dialogo e le frantumazioni di Albero e di Frammenti, in cui lacerti sospesi volano nell’aria, si potrebbe interpretare tale produzione come metafora dell’impazzimento delle cellule che nel 1987 porterà alla morte il marito di Anna, che, a causa di questa irreparabile perdita, decide di abbandonare l’attività artistica per subentrare nell’attività di lui in modo da provvedere ai propri due figli.

Per tagliare i ponti col suo passato, la Seccia distrugge tutte le opere in suo possesso. Ed è per tale ragione che in precedenza ho scritto “da quello che c’è rimasto dei primi dipinti”. Infatti quanto è documentato dagli anni Sessanta al 1986 è ciò che l’artista è riuscita a recuperare da coloro che possedevano sue opere, allorché, messa in condizione di non dover lavorare, ha ripreso a dipingere, in seguito ad un’indicazione del suo Es, concretizzatasi in un sogno, poi da lei stessa così riferito: “Ero in una stanza bianca e vuota, senza porte né finestre, ed io, che non riuscivo a sopportare il peso del vuoto, strappai il filo dell’orlo del mio vestito e con esso cominciai a scrostare lo spigolo di una delle pareti. Fu un grande sollievo scoprire che l’intonaco bianco nascondeva una parete colorata e quel colore, che al tatto risultava fresco e umido, iniziò a penetrarmi nella pelle provocandomi una piacevole sensazione di benessere”1.

A chi conosce il linguaggio dei simboli non è difficile individuare la stanza bianca e vuota senza porte né finestre come una sorta di tomba esistenziale2, il filo del vestito come una sorta di filo di Arianna che aiuta l’artista a uscire dal “labirinto” esistenziale per una rinascita, appunto attraverso il recupero della pittura nascosta sotto l’intonaco bianco, recupero che, appunto in quanto segnava una rinascita, ovvero un ritorno alla precedente condizione abbandonata, pervade Anna di piacevole benessere.

Il sogno, come ebbi ad asserire è stata una “perentoria ‘chiamata’ interiore” alla pittura3. Non a caso Anna stessa ha confessato: “Il sogno ha segnato l’inizio della mia catarsi come artista e mi ha dato lo spunto per il laboratorio d’Artemaieutica. Il desiderio di riprovare quel benessere, quella pace interiore, è stato la molla che ha fatto scattare in me la voglia di ricercare una tecnica che, partendo dal caos, dall’angoscia esistenziale, mi permettesse di raggiungere un nuovo equilibrio, frutto di una riconciliazione tra la mente e il corpo, tra il mondo esterno e il mio mondo interiore”4.

Nei primi tempi della sua “nuova” vita d’artista Anna ha frequentato a Roma il corso di Art Therapy, tenuto da Diane Waller, a Firenze i seminari sulla creatività di Anad Meera, assistente del guru Osho, ed a Milano gli stages del semiologo dell’espressione Arno Stern, il quale sostiene che nella nostra memoria genetica, e quindi prenatale, sono presenti più di 70 segni che possono essere recuperati. Acquisendo attraverso la partecipazione a questi corsi una conoscenza settoriale di ciascuna teoria e pratica, ella ha maturato la convinzione che la sua strada era quella di fonderle tutte, sulla scia dell’olodanser (olo = tutto), nuova disciplina studiata da uno psicoterapeuta fiorentino in relazione ai movimenti del corpo stimolati dalla musica.

La sua cospicua produzione del 1988, che comprende una testa fantasmatica (Ricordo) ed un volto interamente “graffiato”5 da segni giustapposti (Io), nonché due tecniche miste, significative per i profondi rimandi al citato sogno, quali Nascita e Parete, è un denso ed intenso viaggio negli inferi del suo io, popolato di larvali presenze blu (Forma misteriosa), di ombre, anch’esse blu (Parete II, Senza pareti), di piccole bocche galleggianti nel blu (Mistero), di impercettibili emersioni orografiche in vedute orchestrate in informali atmosfere in cui convivono azzurro, celeste, violetto pallido e toni contigui (Paesaggio). Si tratta di una sorta di messa a nudo del caos interiore, restituita attraverso il viaggio nel proprio profondo, in cui al di là delle persistenze residuali della ratio geometrica (Parete III, Modulo, Intermezzo), Anna con una specie di speleologia organica giunge ai tessuti connettivi (Incubo, Danza), ai gangli (Macchie) ed alle cellule del proprio essere (Presenza, Presenze), con soluzioni collaterali alle texturologies di Dubuffet, com’è nei due boli intrisi di umori verdastri di Ricercarsi.

Nel 1989 lo scandaglio prosegue con nuove danze morfologiche (Danza) e nuove presenze, addirittura prossime al quadrato (Presenza), nonché altre scorribande nelle suggestioni di natura, sempre con il lessico neoinformale gravido di azzurri (Foglia, Albero, Paesaggio) ed altri citomorfemi, che si dipanano dalla singola cellula (Senza titolo, Microbi, Centralità), ottenuta in un caso con intervento monotipico (Punto luminoso), alle due (Occhi), tre (Affioramento, Incontro a tre) e più cellule (Interiorità).

Anna Seccia giunge con la sua spatola6 a radiografare letteralmente organismi, restituendo in Corpo visioni dell’interiorità, mentre altrove, cioè in Fessura, “fotografa” una cellula ovale attraversata da un taglio circondato da peluria, ovviamente azzurra, che la fa sembrare il “ritratto” dell’organo sessuale femminile, ma in modo diverso dalla fessura protagonista nel 1990 di Ibrido.

Del resto, le allusioni a dettagli somatici affiorano qua e là nella produzione della Seccia. E se qui sono le labbra (Sorriso, 1990), là i polmoni (Polmoni, 1990), altrove, sempre nel 1990, è un ovale che non a caso ella ha intitolato Ovulo. Quest’opera, a ben guardare, sollecita quesiti interpretativi, e non solo perché nella sua conformazione riecheggia ancora l’orifizio vaginale, ingresso per l’inseminazione dell’ovulo, ma in quanto all’interno s’intravede un elemento rossastro (l’ovaia?) con davanti una sorta di scala a libretto, il cui significato simbolico andrebbe decriptato da uno psicologo freudiano7.

È ovvio che nel suo abbandonarsi alle pulsioni interiori Anna Seccia faccia riaggallare dall’inconscio le sue problematiche femminili, aspetto che nel 1997 mi fece concludere il citato intervento, in rapporto alla sua Artemaieutica, così: “Quanto tali processi elaborativi, per quel che la riguarda, siano innervati nel femminile risulta evidente da molte sue opere, e non solo perché è nel femminile (cioè nell’anima come insegna Jung) che risiede la creatività. Infatti nella pittura della Seccia non di rado affiorano morfologie squisitamente femminili rivelatrici ed in certo senso autobiografiche. Di un’autobiografia simbolica, ovviamente”8.

Comunque, si sa, quando ci si mette all’unisono con l’inconscio altre “memorie” riaffiorano, addirittura ancestrali, di cui una è quella sorta di ameba con uno pseudopodo di Forma primordiale, intrisa di poetico cangiantismo cromatico.

Nel discorso pittorico della Seccia le morfologie, seppur con varianti, si ripetono. Così è per quelle ovali (Pesce città, Oblò), o organiche (Forma sconosciuta) e per quelle rettangolari (Veduta, Mare quadrato). E cito appositamente opere che ci illuminano su i processi ontogenetici del lessico pittorico di Anna, la quale attinge sia al “dentro” che al “fuori”, secondo le inclinazioni del momento. È chiaro che le opere citomorfiche e organiche attengono al “dentro”, mentre al “fuori” attengono le altre, nella fattispecie il fiume segnico di Corteccia e tutte quelle insitamente condizionate da assetti geometrici, come sono Veduta e Mare quadrato, a cui va aggiunto il coevo Paesaggio, per non dire delle contigue opere a striature, qual è il citato Oblò, le cui parallele strisce vanno riferite al mare calmo, in questo caso visto fuori dell’oblò.

Per tutti gli anni Novanta il neoinformale di Anna Seccia, la quale non abbandona l’ottica radiografica (Sezione cranio, Cranio: sezione frontale, 1991), declina le stesse morfologie, spesso con venature segniche (Cellula filamentosa, Organo vibrante, Forma vegetale, Tralcio, 1991; Vibrazioni, Visione aerea, Caverna, 1992; Barbespin, Fuggire, 1993), ma anche con esiti di segnismo capillare (Donna, 1991; Cellula-uovo, Presenza, 1993), che talora giungono a divenire graffiti, com’è in Sezione circolare del 1992, tecnica mista che s’inserisce nel fondamentale filone delle opere nel blu dipinto di blu, che annovera Visione aerea, Superficie movimentata del ’92, Attraversamento, Ovulo, Territorio, Germinazione del ’93, Intuizione, Squarcio, Movimento tellurico del ’94, nonché le posteriori Bella Addormentata del ’97, Attraversamento e Superficie del ’98.

È questa parte degli anni Novanta il tempo dell’azzurro.
Ed Anna lo sente così fortemente che giunge a fisicizzarlo in quella che ella definisce “arte da usare”, concretizzatasi dal 1994 al 1996 nella serie dei tavolini a foglia su gambo (Liberty, Montmartre, Marilyn, Loplop) e dei collaterali Correggio e L’Egiziano, formati da un piano a forma di disco su base piramidale.

Ma, si badi, Anna Seccia non intende dipingere il mondo di azzurro, come ha fatto Yves Klein, che nelle sue Anthropométries è giunto a dipingere modelle, perché a contatto lasciassero su teleri le impronte di questo colore che è stato da lui privilegiato nella sua mania per il monocromo. Anna non è una maniaca né del monocromo, né dell’azzurro. Ella, come è giusto che avvenga per una pittrice dedita all’Artemaieutica, lo estrae dalle viscere della sua pittura, senza timore di farlo convivere o riverberare tra gli altri colori, com’è in tante delle opere citate, con le ulteriori soluzioni ispirate dalla musica (Musica e colore, Presenze, 1997). Il suo azzurro è un colore della coscienza, e spesso come aspetto coscienziale si propone a mo’ di protagonista nei monocromi, nei quali le variazioni assumono, appunto, vibrazioni di un intimo sentire.

A ripercorrere tutta la sua produzione restante, che è stata decimata da un’improvvida inondazione dell’atelier, meglio si precisa l’assunto con cui ho voluto avviare questo viaggio nella pittura della Seccia.

Infatti, mutatis mutandis, Anna ha declinato senza soluzione di continuità le sue variazioni tematiche, rivolte ora al paesaggio (Paesaggio doppio – Dittico, Terra e mare, 1995; La Bella Addormentata, 1997; Paesaggio, Fiordo, 1998), ora alle cellule (Prigione, Groviglio, Parete rocciosa, 1994; Energie, 1995), ora a radiografie organiche, talora accomunate a quelle geologiche, forse per una rielaborazione di esperienze di manipolazione dell’argilla9 (Visione, 1994; Trama di roccia, 1998), ai volti (Ricordo, 1994; Presenza sacra, 1995), ora alle aspirazioni alla ratio geometrica (Speranza, 1994), tutte ramificazioni neoinformali della sua immaginazione (e stavo per dire visionarismo morfocromatico), in cui riemerge e/o persiste la poetica del frammento (si veda al proposito il ciclo Sequenza del 1996).

Ma ormai l’indicazione dell’onirica “chiamata sulla sua strada di Damasco” era diventata pressante. Il suo approdo all’Artemaieutica, concretizzatosi nel Laboratorio del 1997, era il primo passo verso il traguardo della realizzazione del sogno rivelatore che l’aveva fatta rinascere pittrice. Il sogno era ambientato in una stanza bianca e, si sa, il bianco è la somma di tutti i colori, di quei colori che ella grattando la parete aveva cominciato a riportare a vista. Ora, dopo tante esperienze propedeutiche ed altrettanto lavoro, corroborato nel 1998 dalla visita nelle colline piemontesi al tempio ipogeo di Damanhur e da uno stage con Arno Stern sullo studio della traccia e le sue possibilità espressive, era maturato il momento di portare a termine ciò che nel sogno era stato iniziato. Cioè attuare l’imperativo categorico che imponeva di realizzare la Stanza del Colore.

Così nel suo studio Anna ha realizzato una struttura cubica mobile a cerniera sulle pareti e sul pavimento della quale ha dipinto una tessitura di segmenti cromatici, sovrapponendo toni caldi e freddi. Completato tale lavoro di fitta pittura segnica, che coinvolgeva la vista, ella ha sentito l’esigenza di tentare di andare oltre la sfera visiva con l’inserimento di profumi e luci colorate nella struttura cubica, in modo da ottenere, con l’implicazione interattiva di altri sensi, quali l’odorato e l’udito, risultati di “global art”, come lei la definisce. La prima Stanza del Colore era attuata. Ma Anna Seccia, formatasi nei seminari, s’è convinta il fine della sua ricerca non poteva essere limitata all’opera, bensì doveva avere una concreta utilità sociale. Pertanto, persuasa che ciascuno è pregno di potenzialità espressive, ha voluto coinvolgere altre persone nella pratica della pittura, per dar loro la possibilità di liberare (e stavo per scrivere: partorire) i segni ed i colori di cui ognuna è, seppur inconsapevolmente, gravida. Nascono così i laboratori di Artemaieutica, nel corso dei quali attraverso la somma degli interventi di ciascuno, poi semanticamente relazionati dall’intervento finale della stessa Anna Seccia, la Stanza del Colore si concretizzava in virtù di quelle operazioni di “arte relazionale sullo stesso lavoro per creare l’opera-stanza-territorio”, per ripetere parole della stessa artista.

Il risultato ottenuto dalla somma di più sensibilità costituisce l’aspetto più interessante di queste operazioni, che producevano un “luogo della rappresentazione”, governate da quella di una collaudata pittrice, qual è Anna, la quale permetteva ad altri di riportare a galla colori e segni sepolti nel profondo in virtù di quella “pesca” istintuale e pulsionale, che costituisce l’ontogenesi di quel viaggio di andata e ritorno tra sfera inconscia e sfera conscia che è il fare artistico10. E non è un caso che la prima Stanza del Colore abbia trovato accoglienza presso la Facoltà di Architettura dell’Università degli Studi “G. d’Annunzio” di Pescara, dove è stata esposta dal 10 al 30 dicembre 1998 con un puntuale commento critico di Toti Carpentieri.

Anna Seccia ha poi attuato altri laboratori, coinvolgendo anche bambini di scuole diverse. Ma la sua aspirazione è quella di dotare la sua città di una Stanza del Colore, fruibile quotidianamente da tutti e pertanto ha accettato di sistemare i lavori di arte sociale realizzati con i bambini in uno spazio urbano en plein air.

E tuttavia il sogno, quello della rinascita alla pratica della pittura, non è soddisfatto da questo traguardo raggiunto. Ella avrebbe voluto realizzare la manifestazione Pescara in rosa, operazione artistica rivolta alle donne parlamentari di ogni schieramento politico, programmata per il novembre del 2006 e, come tante buone idee, ahimé, non recepita da chi di dovere, nonostante le promesse fattele.

Ecco come sarebbe dovuta essere questa nuova Stanza del Colore, secondo il progetto speditomi dalla stessa Seccia: “Essa doveva essere formata da 4 pareti luminose incernierate che si potevano ruotare e chiudere a cubo. Sulle facce interne avrei raffigurato la struttura segnica coloratissima della stanza del colore, mentre su quelle esterne avrei rappresentato La Bella Addormentata delle montagne abruzzesi, già da me dipinta nel 1997 su formato cm 90×180. Avevo in mente di collocare l’installazione sul palco del Teatro d’Annunzio e, per l’effetto scenografico, due ragazze situate all’interno del cubo chiuso, a suon di musica e tra fumi colorati, dovevano aprire le pareti e farle girare. Questa opera doveva diventare il simbolo della politica rosa a Pescara e la stanza del colore doveva essere il luogo di un Forum nazionale ed internazionale annuale, in cui si discutesse di problematiche femminili”11.

La Stanza del Colore è divenuta col passare degli anni il topos centrale dell’identità interiore di Anna Seccia. In altre parole, per riallacciarmi a quanto asserito nell’incipit di questo testo, è divenuto il vero son double, ben oltre all’oggettivazione del sogno propedeutico alla sua rinascita come pittrice, sogno nel quale è chiaramente esplicitato quanto il colore fosse “in lei”, al punto che potrebbe essere definita a ragione Anna dei Colori. Ed è attraverso tale son double che ella ci ha restituito il proprio dinamico ritratto psicologico-simbolico, da cui risulta artista dotata di un’esuberanza creativa.

Un’esuberanza la cui linfa è costituita dal colore, in cui dominante è l’azzurro, ma non in maniera così esclusiva da farla definire artista di “sangue blu”. Comunque, se lo fosse stata, avremmo dovuto riconoscerla artista democraticamente “illuminata”, come attestano i suoi laboratori, maieuticamente, aperti a tutti. E proprio sulla base di questa sua esuberanza ora sta meditando di portare il suo lessico neoinformale nelle piazze di varie città, per dare la possibilità in ciascuna di esse a chi è interessato a relazionarsi con la sua energica gestualità segnico-cromatica di realizzare assieme con lei una Stanza del Colore.

Si potrebbe dire che Anna dei Colori ha trovato il modo, il suo modo di collettivizzare la propria identità artistica, senza smarrirne i connotati fondamentali, anzi rafforzandoli socialmente.

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